top of page
  • Gianluca Danieli

Recensione di "THE DEVIL'S HOUR" (2022)

Quanti dottori ci vogliono per risolvere un mistero?


Una serie originale Amazon Prime Video, creata e scritta da Tom Moran.




(Film recensito in collaborazione con "L'Occhio del Cineasta". Sulla stessa piattaforma è pubblicata una versione ritoccata della stessa recensione, modificata per rispettare i parametri di impersonalità )




Puoi rispondere a una domanda? Ti sembrerà strana… Qual è la cosa peggiore che hai mai vissuto nella tua vita?


Ciò che molte storie thriller spesso insegnano è che l’apparenza inganna. Quegli stessi thriller, tuttavia, raramente ci sorprendono con qualcosa di diverso da ciò che ci si aspetta. A primo impatto, “The Devil’s Hour” potrà sembrare uno dei tanti; un tradizionale thriller poliziesco, psicologico, britannico, con un elemento di soprannaturale. Ma in realtà è molto più di questo.


Diversi elementi classici del genere, sia chiaro, non mancano. La narrazione non-lineare, alternando fra il passato, il presente e il futuro, e gli sprazzi di visioni adibite a guidare avanti la trama quanto basta, ma non abbastanza da risolvere subito il mistero, non sono niente di nuovo. Qui tutti questi elementi vengono spinti all’estremo, fino a giustificarli. Ogni singolo micro-secondo di flashback e flashforward si fissa nella mente dello spettatore come un messaggio subliminale, fino a quasi indurre allucinazioni negli spettatori stessi.


Lo scrittore Tom Moran, prima di creare questa serie, si era fatto un nome nel mondo della commedia British. Qui c’è ben poco da ridere; fra abusi domestici, serial killer, bambini che scompaiono e (solo talvolta) riappaiono, e macabri ricordi di eventi mai accaduti. La protagonista Lucy, quando non è impegnata a convincere uomini a non picchiare le donne, è intenta a scoprire perché suo figlio si comporti in modo strano. I suoi disperati tentativi di capire il suo bambino, o anche solo di strappargli un sorriso, si rivelano più coinvolgenti delle indagini di omicidio. Perché quel bambino guarda sempre nel vuoto? A chi si rivolge quando parla da solo? Perché, se un bulletto a scuola gli dice di darsi un pugno in faccia, lo fa, senza battere ciglio? Non è autismo, non è schizofrenia… o almeno così dicono i sette dottori che lo hanno visitato.


A proposito di dottori…


In un ovvio richiamo all’esplorazione della fluidità del tempo, l’antagonista è interpretato da Peter Capaldi, noto per la sua incarnazione del dodicesimo “Doctor Who”. Tuttavia è Jessica Raine (‘Lucy’) a rubare la scena; con la sua magistrale alternanza fra l’intenso, il triste e lo spiritoso, districandosi fra il lavoro di assistente sociale, madre e detective improvvisata. Incidentalmente la stessa protagonista aveva recitato in “An Adventure in Space and Time” (2013); una drammatizzazione delle disavventure dietro le quinte della creazione proprio della serie “Doctor Who”, nel ruolo della produttrice. Coincidenza? Assai improbabile. In ogni caso, un tale livello di complessità nella trama, con una tale raffinatezza nell’esecuzione narrativa, un episodio del “Doctor Who” se la sogna.


Rendere giustizia all’intrigante groviglio della storia in poche parole (e senza rovinare troppo) sarebbe impossibile. Non manca qualche piccola pecca che trattiene la serie dal diventare un vero capolavoro. Il coinvolgimento narrativo, seppur ben ritmato, poteva beneficiare dal ridurre i singoli sei episodi alla durata di 40 o 50 minuti ciascuno, invece che un’ora intera. Ma una volta raggiunto il climax finale, con un gran misto di emozioni contradditorie che mai avrei pensato di poter provare tutte all’interno di una sola scena, si perdona qualsiasi piccolo difetto precedente.


Una serie che non soltanto crea dipendenza, ma ha una solida qualità narrativa, una recitazione stellare, ed un intreccio spazio-temporale iper-complesso ma allo stesso tempo facile da seguire e che, diversamente da altre storie del genere (almeno ad una prima visione), NON ha visibili falle logiche. (Se me ne fosse sfuggita una, scrivetemelo pure nei commenti).


È super-complesso, ma non serve un dottorato per comprenderlo, ancor meno per lasciarsi coinvolgere dall’intrigante oscurità dell’ora del diavolo.




bottom of page