Recensione di "NOPE" (2022)
Un fanta-horror scritto e diretto da Jordan Peele - ATTENTI A CIO' CHE GUARDATE.
Strane cose accadono nell’area rurale di Los Angeles. Monete e chiavi appartenuti a chissà chi cadono dal cielo. L’elettricità va e viene. I cavalli si comportano in modo strano. E nel cielo, nascosto fra le nuvole, si intravede qualcosa di gigantesco e spaventoso che non intende andarsene.
Di tutti i film finora recensiti su questo Blog, “Nope” (un modo colloquiale inglese di esclamare “No!”) è in assoluto il più strano. Un curioso horror fantascientifico dal significato volutamente criptico, a volte un po’ troppo, con una narrazione scandita per capitoli, ciascuno preceduto dai nomi dei cavalli che stanno misteriosamente scomparendo uno ad uno.
Per molti versi, la pellicola ha tutto l’aspetto di un film di genere, low budget, degli anni ’80, in cui tuttavia è stato investito un budget gigantesco. Ma non è solo una questione di soldi o effetti speciali di qualità. La regia di Jordan Peele si rivela molto raffinata, con un’estrema cura per i dettagli, un attento riguardo alla mise-en-scène, ed un equilibrato ritmo drammatico, rendendo spaventosi soprattutto i momenti più silenziosi. Trova la giusta armonia tra immagine e suono, senza ricorrere a trucchi di bassa lega che tipicamente infestano il moderno cinema dell’orrore; come uso eccessivo di jump-scares, effetti sonori forzati o una cinematografia spastica. Il tutto accompagnato da un sottile umorismo che, per quanto sottile, ruba addirittura la scena all’atmosfera horror. TUTTAVIA… Tanti elementi lasciano perplessi.
Il fulcro della storia ruota intorno al misterioso disco volante che pare aggirarsi fra i cieli. Eppure le scene più memorabili e macabre si rivelano quelle che con la trama principale centrano poco o nulla e che, tragicamente, sono limitate alla prima metà del film. In particolare: quelle riguardanti uno scimpanzè che dà di matto sul set di una sitcom degli anni ’90. Tali sequenze non si collegano direttamente alla storia di base. Servono semmai a rafforzarne la tematica di fondo. Il ché mi porta all’altra principale causa di perplessità: la TEMATICA appunto.
Il film si propone come molto più di due ore di mero intrattenimento, spingendosi in una allegorica riflessione sull’attrazione degli spettatori per il cruento, il terrificante, il traumatico e su come tutti questi elementi vengano sfruttati per farne spettacolo. Più che una metafora, forse è addirittura una velata critica. Basti pensare che la soluzione a uno dei vari misteri è quello di NON GUARDARE.
Si tratta forse di una polemica sulla nostra passione per il cinema dell’orrore, nonché del genere horror stesso, guarda caso lo stesso genere grazie al quale Peele si è fatto un nome nel mondo del cinema? Il messaggio è forse che noi, spettatori, NON avremmo dovuto guardare questo film? O forse ancora, si trattava di una fiaba di ammonimento sulle potenziali conseguenze dello sfruttamento di animali per il nostro intrattenimento? E quale accidenti era il senso di quella scarpetta che stava innaturalmente dritta sul pavimento tutto il tempo? Ma soprattutto, il quesito più importante, vale la pena scervellarsi per questo film? Queste e altre domande continuavano a frullarmi in testa mentre uscivo dalla sala, sfogliando i miei appunti stracolmi di punti interrogativi.
Uno dei principali motivi per cui il primo film di Peele (“Get Out” 2017) era così terrificante: era la sua diretta, scioccante semplicità, con una trama di partenza familiare in cui ci si poteva facilmente immedesimare, ed una critica sociale chiara e mirata. Le parti migliori, inoltre, erano conservate per la fine. Qui, d’altro canto…
Se c’è UNA morale che si può trarre da questo film è che bisogna stare MOLTO ATTENTI a cosa guardiamo; ne va della nostra vita. Quindi, questo film potete anche vederlo, ma a vostro rischio e pericolo. Varrà la pena di tutto questo scervellamento? Questo potete deciderlo solo voi. Nel frattempo, attenti a non farvi fondere il cervello; può sempre tornare utile un giorno.
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