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  • Gianluca Danieli

Recensione di "ELVIS" (2022)

Regia di Baz Luhrmann, Film Biografico Musicale - APPARISCENTE AL PUNTO GIUSTO.


Io non ho ucciso Elvis Presley. Io lo ho CREATO”.


Con queste parole sussurrate, il leggendario e controverso Colonnello Tom Parker – ormai vecchio, moribondo e tormentato dagli incubi – apre un’epica storia di musica, passione, amore, odio e soprattutto di eccesso.


Il tipico stile sopra le righe del visionario regista Baz Luhrmann, spesso improntato appunto all’eccesso, qui si trova nel posto giusto. Una figura come Elvis, rivoluzionaria e appariscente, caratterizzata da vistosi movimenti di anca, giacche a brillantini e Cadillac rosa fluorescenti, non poteva trovare regista più azzeccato.


Austin Butler impersona il protagonista con maestria, districandosi fra lo sgargiante Elvis sul palco e quello impacciato dietro le quinte che riesce a malapena a parlare. Non è stato, però, solo Elvis a creare “Elvis”. Molti concordano che sia stato il suo agente, l’autoproclamato Colonnello Parker (Tom Hanks), a renderlo un’attrazione di livello mondiale. Parker veniva descritto nella biografia di Peter Guralnick come un ambiguo uomo d’affari di impronta circense che controllava fino al più piccolo dettaglio dei suoi contratti e che si assicurava sempre che NESSUNO guadagnasse più di lui. Un affarista che guadagnava non soltanto smerciando spille con la scritta “I love Elvis” ai fan, ma anche quelle con “I HATE Elvis” ai suoi più sfegatati detrattori. È soprattutto dal suo punto di vista che scorre la trama, in buona parte scandita dalla sua intensa voce narrante.


Elvis è stata una star della musica e del cinema. Amava cantare, amava i film… ma trovava i Musical “ridicoli”. Se il protagonista di un film cantava in un contesto sensato, ben venga, ma che dei personaggi si dimenassero improvvisamente in un elaborato ballo cantato nel mezzo di un momento serio era troppo assurdo persino per lui. Se, pertanto, questo film fosse sfociato nel surreale genere Musical, come in “Rocketman” (2019, regia di Dexter Fletcher) sarebbe stato alquanto paradossale. Tuttavia Baz Luhrmann ci sorprende riuscendo a percorrere un delicato equilibrio tra la realtà biografica e la spettacolarità delle performance, giocando e rimescolando le scene con salti temporali e melodici, come in un elaborato remix, creando così un sapiente film biografico musicale, senza mai tecnicamente cadere nel “Musical”.


Per quanto estremamente ben fatti, questi “remix” audiovisivi potrebbero risultare un po’ tosti da digerire per alcuni spettatori. Giurerei, ad un certo punto, di aver sentito una moderna canzone rap con base elettronica. Quell’anacronismo, per me, ha oltrepassato un po’ il limite.


Tuttavia, lo stile della pellicola va incontro anche agli spettatori che cercano un film più sobrio. A mano a mano che il tempo passa (e di tempo ce n’è in abbondanza), la narrazione didascalica del Colonnello diventa sempre più sporadica, lo stile meno eccessivo, il ritmo più allentato, lasciando spazio, verso la fine, anche ai momenti più malinconici. Queste scene più lente funzionano talmente bene, in termini di coinvolgimento emotivo, da far quasi perdonare tutti i dialoghi un tantino melensi.


È proprio nell’ultima parte del film, quando il ritmo pazzesco rallenta sempre più, come la conclusiva melodia che sfuma alla fine di una complessa composizione musicale, che la lunghezza di quei 160 minuti di film comincia a farsi sentire. D’altro canto, per rendere giustizia ad un’icona come Elvis Presley, è anche vero che quei 160 minuti servivano tutti.


A distanza di 45 anni, in un’epoca in cui ormai non si vende più solo una musica o un’artista, ma un MARCHIO, e con un mercato che capitalizza tanto dall’amore quanto dall’odio (se non di più dall’odio), le controverse disavventure del duo Presley & Parker si rivelano più attuali che mai. Da parte mia, questo film riceve solo amore, e non una sola nota di odio.



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