Recensione di "BLONDE" (2022)
QUANTO ABUSO PUÒ SUBIRE UNA DONNA PRIMA DI CROLLARE?
Scritto per lo schermo e diretto da Andrew Dominik.
Basato sul romanzo di Joyce Carol Oates del 2000.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia79. Film Netflix.
(Film recensito in collaborazione con "L'Occhio del Cineasta".
Sulla stessa piattaforma è pubblicata una versione ritoccata della stessa recensione,
modificata per rispettare i parametri di impersonalità richiesti)
“Allora Marilyn, com’è essere una star del cinema?”
“Ah, non sono una star. Sono solo una bionda.”
“I tuoi capelli sono veri?”
“… no”.
(dialogo tratto dal film)
Quanta violenza fisica e psicologica può subire una donna prima di crollare? Quanto a lungo può resistere uno spettatore, guardando tutto quell’abuso, prima di voltare la testa, uscire dalla sala, o spegnere il televisore?
Questo è stato un film molto difficile: difficile da recensire, sì, ma soprattutto da GUARDARE… fino alla fine.
Non si tratta di una biografia. Joyce Carol Oates, autrice del romanzo di 738 pagine (1.320 nella versione italiana) da cui la pellicola è tratta, ha più volte ribadito quanto tale storia, seppur con qualche sprazzo di verità, abbia ben poco di vero.
Guardando “Blonde” infatti non si ha la sensazione di vedere la vita vera, di una persona vera, nel mondo vero. È più come venir trascinati in un sogno, anzi un INCUBO, dal quale non è possibile svegliarsi. È un’esperienza lenta, surreale e straziante. Induce in uno stato di trance da cui si vorrebbe scappare, e allo stesso tempo vi è impossibile distogliere lo sguardo, poiché ormai colti nel suo lacerante potere ipnotico.
Una donna scappa in macchina, con la figlia, per le strade infuocate di Hollywood. Quella bambina, ormai grande, si alza dal letto, ignara delle parti intime che le sanguinano dappertutto. Dei personaggi intrattengono una conversazione esistenziale, guardando le stelle, finché tali puntini nel cielo, con una dissolvenza, si trasformano in spermatozoi intenti a ingravidare la protagonista. Tutto questo mentre la titolare “bionda” subisce abuso dopo abuso, fino al punto in cui non ha neanche più bisogno degli altri per distruggersi; impara a farlo da sé.
Chiamare questa pellicola stilizzata sarebbe un eufemismo. I dialoghi mancano di naturalezza, spesso trasportando l’audience in un mondo onirico a parte. La cinematografia è uno spettacolare (forse eccessivo) showcase di TUTTO ciò che si può fare con una macchina da presa. Lo schermo cambia formato nella stessa scena, anche in forma verticale. Alterna dal colore al bianco e nero, altalenando fra fluidi ed elaborati piani sequenza e sequenze spastiche, tenute a mano. Gioca con ogni possibile trucco di luci, sfocature e distorsioni di lente mai provate nella storia del cinema. Di particolare nota è l’ammaliante effetto visivo nella scena d’amore fra ‘Marilyn’ e altri due uomini.
Non lasciatevi tuttavia ingannare dalla menzione di quest’ultima scena. Nonostante tutta la nudità artisticamente sbattuta in faccia allo spettatore, c’è ben poco di sensuale.
La scena forse più esemplare è quella in cui Norma Jeane – la donna dietro l’attrice con lo studiato nome d’arte – inebetita da farmaci e alcool, vomita addosso alla telecamera, piazzata dentro al gabinetto di un aereo. Ogni singolo trauma, ogni singola sofferenza, ogni singolo strazio della protagonista viene spogliato e rigettato, senza mezzi termini, addosso al pubblico, per il nostro... intrattenimento? Il tutto senza alcun elemento per indorare la pillola che ci viene forzatamente cacciata in gola. In poche parole: Non è un film per i deboli di stomaco.
Se la narrazione renda giustizia alla figura di ‘Marilyn Monroe’, o se la sfrutti martorizzandola quanto i personaggi veri e finti nel film, è argomento di dibattito. Prendendo come riferimento la vera storia di Norma Jeane (quantomeno quella raccontata nella biografia scritta da Fred Lawrence Guiles), lascia dubbiosi la incessante vittimizzazione del personaggio, al limite della de-umanizzazione. Norma Jeane, quella reale, ha sicuramente affrontato ogni genere di abuso. Degli sprazzi di verità ci sono: La sua paura di ereditare la pazzia della madre. Lo sfruttamento commerciale di ‘Monroe’ come icona. La sua disperata ricerca per una figura paterna. Ma questa pellicola pare sorvolare la sua risolutezza nell’essere amata da quante più persone possibili.
Lei stava ore davanti allo specchio, non tanto per vanità, quanto per insicurezza, e determinazione nel perfezionare la sua immagine. Abbandonò il primo marito per lanciare la propria carriera. Cercò di fondare la sua stessa casa di produzione. Tutti questi elementi vengono minimizzati, rendendola quasi esclusivamente una vittima passiva che subisce, subisce e subisce. La sua crociata personale nel migliorarsi come attrice, essere presa sul serio, viene a malapena sfiorata; pare quasi più un’esigenza da parte del suo marito più violento che un obbiettivo proprio. L’unico livello di azione nella propria storia che le viene concesso è il ruolo nella sua stessa autodistruzione. Per quanto lungo un film, non si può includere tutto di una persona. In base al tipo di storia che si racconta, si sceglie di focalizzarsi su alcuni aspetti e tralasciarne altri. Tuttavia lascia perplessi il fatto che ci si sia concentrati su ‘Marilyn’ più come mera vittima che come personaggio.
Questa pellicola forse si troverebbe meglio in una mostra d’arte surrealista che nella sala di un cinema o un salotto di casa. Una di quelle mostre con un grosso cartello di avvertenza all’ingresso per i contenuti spinti. In ogni caso, qualora qualcuno abbia il coraggio di guardarla, è solo giusto metterlo in guardia su cosa lo aspetta.
“Blonde” è sicuramento un film ambizioso che si pone di scioccare l’audience, attirandola con l’innegabile fascino e talento di Ana De Armas nei panni di ‘Marilyn’, e certamente destinato a lasciare un forte impatto sugli spettatori con lo stomaco abbastanza forte da riuscire a guardarlo fino in fondo.
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